Infortunio sul lavoro: aspetti penali della fattispecie

Oggi più che mai, la sicurezza sul luogo di lavoro rappresenta uno dei punti nevralgici della vita lavorativa di una realtà aziendale e primario banco di prova delle strutture di compliance.

 

Il legislatore ha dimostrato, soprattutto nel corso degli ultimi anni, un crescente interesse nei confronti della suddetta disciplina, intensificando le misure poste a tutela della sicurezza del lavoratore e rendendo sempre più effettive e concrete le garanzie per chi subisce gli effetti negativi derivanti dalla violazione della normativa in disamina.

 

È necessario premettere che con “salute e sicurezza sul lavoro” si fa riferimento al complesso delle misure protettive e preventive, di natura tecnica, organizzativa e procedurale, che l’azienda deve applicare al fine di  garantire ai lavoratori la minor esposizione ai rischi connessi fisiologicamente all’attività lavorativa.

 

Il concetto stesso di infortunio sul lavoro si caratterizza per la sua grande estensione, abbracciando tutte le diverse forme di responsabilità: civile, amministrativa e penale.

 

Con specifico riferimento alla responsabilità penale, la normativa di riferimento è contenuta sia nel codice penale, che nel Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 81/2008) che individua i fattori di rischio, le misure da adottare e le strategie da attuare. Nello specifico, gli artt. 36 e 37 pongono in capo al datore di lavoro un obbligo di formazione e aggiornamento del personale allo scopo di rendere i soggetti edotti circa le condizioni utili per lo svolgimento della propria mansione in piena sicurezza.

 

Gli obblighi formativi, difatti, concorrono a garantire l’esigenza di conoscenza e conoscibilità della legge ma, soprattutto, costituiscono concreto deterrente rispetto alla verificazione dell’illecito. E invero, con il rispetto degli obblighi di formazione, non soltanto si raggiunge l’obiettivo di mandare esente da responsabilità il datore di lavoro che dimostri il pieno rispetto della disciplina antinfortunistica, ma, molto più efficacemente, si realizza concretamente la finalità di assicurare al lavoratore un comportamento cosciente e consapevole dei rischi dell’attività e delle misure adottate per prevenirli.

 

L’obbligo formativo è stato di recente oggetto di una rilevante pronuncia della Cassazione Penale che, con sentenza n. 24417/2021, ha statuito come non sia in alcun modo possibile prescindere dagli obblighi formativi in un’ottica di tutela preventiva della salute del lavoratore.

 

Premessa fondamentale è che l’insieme delle misure di protezione rappresenta un dovere per i datori di lavoro, che, ove disatteso, viene espressamente sanzionato.

 

Una prima soglia di tutela penale è, infatti, prevista dal legislatore in ordine all’omissione delle cautele antinfortunistiche. Il codice penale contempla due ipotesi specifiche, l’art. 437 c.p. rubricato “rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”, e l’art. 451 c.p. rubricato “omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro”, introdotte proprio al fine di tutelare il lavoratore da qualsiasi pericolo o rischio che possa discendere dall’omissione o dalla distruzione dei presidi antinfortunistici ed indipendentemente dalla verificazione di un danno ulteriore (che ove si realizzi, comporta un inevitabile innalzamento di pena). In queste due specifiche ipotesi, infatti, la condotta sanzionata coincide esattamente con l’omissione degli obblighi di legge. Si parla, infatti, di c.d. reati di pericolo, ovvero illeciti che sanzionano la messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma e non la sua lesione.

 

Diversamente, ad un secondo livello di tutela penale, l’omessa adozione delle cautele non è considerata condotta ex se sanzionata, ma diviene parte fondante dell’indagine probatoria circa la commissione di differenti fattispecie di reato.

 

Sul punto, giova osservare che la disciplina normativa prevede, in questo ambito, due fattispecie penali di particolare rilievo contenute negli artt. 589 co. 2, e 590 co. 3, c.p.: l’omicidio colposo e le lesioni colpose, in quel particolare caso in cui, il reato si consumi a causa della violazione della disciplina antinfortunistica, per responsabilità omissiva del datore di lavoro. Il codice penale, difatti, sancisce che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

 

Nei casi qui menzionati, il datore di lavoro è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori e l’omissione sanzionata coincide proprio con l’omessa predisposizione di un ambiente salubre e sicuro per i dipendenti che si pone come antecedente causale dell’evento lesione o dell’evento morte.

 

E invero, si ritiene responsabile il datore di lavoro qualora si accerti che, laddove l’agente si fosse attenuto alle prescrizioni di legge, che gli impongono di adottare specifici protocolli di sicurezza in ossequio alla normativa antinfortunistica, l’evento non si sarebbe verificato.

 

Allo stesso modo, i protocolli di sicurezza divengono centrali anche nell’accertamento dell’elemento soggettivo. I due reati sin qui analizzati, invero, sono entrambi reati di natura colposa, con ciò intendendo che gli eventi giuridici non sono voluti dall’agente, ma da questi unicamente rappresentati o quanto meno rappresentabili.

 

Come è noto, l’accertamento della colpa passa preliminarmente dalla violazione di una regola cautelare posta a fondamento del comportamento necessitato (nel caso di specie, quella dettata dalla disciplina del D. Lgs. n. 81/2008).

 

Ebbene, in modo non completamente dissimile da quanto avviene per l’accertamento del nesso causale nei reati omissivi, nell’effettuare il giudizio sulla colpa, uno dei profili d’indagine richiede di analizzare il c.d. comportamento alternativo lecito, al fine di capire se l’evento dannoso si sarebbe verificato anche qualora l’agente si fosse attenuto alle prescrizioni imposte.

 

Ne discende che, accertata l’involontarietà della condotta e il comportamento alternativo lecito, la violazione della regola cautelare sussiste, in uno all’elemento soggettivo della colpa, solo qualora la condotta doverosa sia effettivamente esigibile dal soggetto agente.

 

Sul punto non può non citarsi un caposaldo della giurisprudenza penale della Cassazione a Sezioni Unite, la sentenza ThyssenKrupp (Cass. n. 38343/2014) che descrive in modo dettagliato le posizioni delle diverse figure aziendali al fine di delinearne i possibili profili di responsabilità.

 

In quello che è da sempre conosciuto come il dibattito sulla linea di confine tra colpa cosciente e dolo eventuale, la Cassazione ha condannato il datore di lavoro per omicidio colposo, ritenendo che il direttore dei lavori, in quelle circostanze di tempo e luogo, non avesse accettato il rischio di verificazione del danno, al fine di raggiungere un qualsivoglia risparmio di spesa, ma fosse incorso in un’erronea valutazione circa l’efficacia delle misure già esistenti ed operanti in azienda, escludendo che potesse effettivamente verificarsi un evento dannoso, poi in realtà realizzatosi.

 

In quell’occasione, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato l’importanza della prevenzione in materia di sicurezza sui posti di lavoro, conducendo il giudizio sulla responsabilità penale del reo proprio alla luce della presenza delle cautele e della valutazione della loro efficacia, posta in essere dal singolo soggetto agente.

 

A ratifica di un orientamento oramai granitico della giurisprudenza di legittimità, la IV sezione della Cassazione penale è tornata ad affermare i medesimi principi in un nuovo e recentissimo provvedimento, la sentenza 37803 del 21 ottobre 2021, nel quale ha ritenuto responsabili il datore di lavoro e il responsabile del servizio di manutenzione dei dispositivi di sicurezza per il reato ex art. 590 co. 3 c.p., in quanto i macchinari (un’accoppiatrice utilizzata in assenza di griglie di protezione tra rullo e pressore) non erano stati messi, a parere della Corte, adeguatamente in sicurezza.

 

Occorre tuttavia rappresentare che il comportamento del lavoratore assume rilevanza fondamentale in tali fattispecie e difatti, sia nell’ipotesi di omicidio colposo che di lesioni colpose, la responsabilità del datore di lavoro è esclusa sic et simpliciter nel momento in cui il comportamento del lavoratore debba considerarsi abnorme, ovvero un comportamento da se solo idoneo a causare l’illecito, per una condotta del lavoratore tradottasi in un comportamento non arginabile, per il tramite delle cautele imposte al datore di lavoro dal D. Lgs. n. 81/2008, in virtù del carattere dell’imprevedibilità che la caratterizza.

 

Da ultimo, è necessario considerare che le due fattispecie di reato oggetto di disamina siano qualificate come reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato dell’ente, come previsto dall’art. 25 septies d.lgs. 231/2001.

 

In altri termini, il Legislatore, a tutela del lavoratore, ha deciso di affiancare, alla responsabilità penale del datore di lavoro persona fisica, la responsabilità della società, per il caso di omissione delle suddette cautele.

 

Stravolgendo il principio “societas delinquere non potest” la normativa 231 stabilisce che, in caso di omessa tenuta dei modelli organizzativi di gestione previsti dal d.lgs. 231/2001, e cioè di quei protocolli interni che regolano i processi a rischio delle strutture aziendali e quindi, nel caso che ci occupa, quelli attinenti alla sicurezza sul luogo di lavoro,  la società possa essere condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria o, nei casi più gravi, con una sanzione interdittiva.

 

 

 

In definitiva, anche alla luce di tale ultima normativa, vale osservare che a qualsiasi livello di organizzazione e struttura societaria sia opportuno dotarsi di misure tecniche, operative e formative che possano dimostrare il rispetto della legge, evitare la commissione di reati, e, qualora ciò risulti inevitabile, dimostrare la mancanza di colpevolezza.

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